Descrizione
In principio, c’erano le foglie della Sibilla. Così le presenta Dante: “… così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla” (1) Secondo la tradizione leggendaria raccolta da Virgilio (2) e da Giovenale (3) la Sibilla cumana scriveva i suoi responsi su foglie che poi, all’aprirsi della caverna nella quale esse erano racchiuse, si disperdevano al vento divenendo così indecifrabili. Come tutte le tradizioni mitiche, anche questa è semanticamente parlando, ambigua: l’aprirsi della caverna è una profanazione, e il vento che disperde le foglie confondendo così i responsi costituisce la conseguenza di tale profanazione? O, al contrario, il penetrare del vento nella grotta è condizione necessaria strutturalmente parlando affinché i responsi, resi di ardua o magari sia pur impossibile decifrazione dallo scompiglio provocato dalla corrente d’aria, raggiungono comunque gli interessati? Il volar delle foglie inscritte sulle ali del vento è un incidente conseguente alla profanazione o la condizione perché il responso entri nella storia? Va comunque ricordato che l’antro della Sibilla cumana è un nekyomanteion, un boccaporto che conduce all’altro mondo, una porta per il descensus ad inferos: e la decrittazione del futuro è opera eminentemente necromantica nel senso etimologico di questo termine, è risultato della capacità e possibilità d’interrogare i defunti. Al pari di Ulisse, anche Enea affronta il mondo delle ombre per ricevere lumi sul suo futuro. Le carte sono come le foglie della Sibilla: mischiate e distribuite “a caso”, contengono nondimeno ciascuna il loro messaggio che raggiunge chi deve esser raggiunto proprio e solo da quello e non da altri. D’altronde, il numero delle carte è limitato, non diversamente dai fonemi e dai mitemi dei quali tratta il Levi-Strauss: ma, come da un limitato numero di fonemi l’uomo parte per la costruzione di un numero praticamente illimitato di parole, di discorsi, di dialetti, di lingue, e da un ristretto numero di mitemi basilari nascono, attraverso differenti combinazioni, sistemi mitici di numero illimitato, allo stesso modo le carte contengono nei loro 22 Arcani Maggiori e nei loro 56 Arcani Minori, con le loro figure, i loro colori, il loro numero, una potenzialità di narrazione-previsione di “destini incrociati” praticamente infinita (4). E tutto si regola – nella selezione dei mitemi e dei fonemi come in quella delle carte, come nella storia, come in molti games oggi di moda – sulla base della legge che vuole che ogni atto sia in realtà una scelta, e che ad ogni scelta ci si trovi regolarmente dinanzi a un cammino che quanto meno si biforca, in un’infinita struttura ad albero. I tarocchi possono – come vuole Italo Calvino – essere quelli del “Castello” suggerito dalla splendida serie viscontea o quelli della “Taverna”, ispirata dalla popolare e un po’ canagliesca serie di Marsiglia: ma il destino resta lì, pronto a essere evocato dagli audaci o dagli sconsiderati (non è, in fondo, la stessa cosa) che vogliono tentare Iddio – come dice la Torah – o sfidare degli dèi e porre alle carte la loro domanda. Potere-sapere-amore-danaro, spada-bastone (la verga del pellegrino, ma anche la bacchetta del mago) -coppa-oro: c’è forse mai stato qualcos’altro nel cuore dell’uomo, qualcosa ch’egli cerchi con più ardore e che domandi tutte le volte che può, accettando magari di mettere a repentaglio la vita per questo? Le carte vengono distribuite secondo la “fortuna” o la “sfortuna” di chi le riceve: al tempo stesso, però, il loro uso nel gioco – che dipende dalla “virtù” e dalla “sapienza” di chiunque le manipoli – rimette tutto in discussione e può capovolgere qualunque responso iniziale. Al pari delle stelle, le carte inclinano ma non determinano: dialogare con loro significa prendere atto dei precondizionamenti del destino, accettarli nella loro realtà, ma impegnarsi al tempo stesso a piegarli quanto possa essere possibile alla propria volontà (5). Strumenti di un gioco, le carte restano ciò nondimeno anche strumenti divinatori: e allo stato attuale delle cose resta impossibile decidere se esse siano sorte in ambiente cortese (come pur, per parecchi indizi, parrebbe) o in ambiente popolare: del resto, poco in tal senso ci soccorre il ricorso stesso alla semantica dei Trionfi, poiché sappiamo bene quanto i temi trionfali facessero parte sia della sintassi delle feste di corte, sia di quella delle feste di piazza. Semmai, forse, il ricorso ai Trionfi petrarcheschi – diffusi proprio pochi decenni prima che naibi (6) e trionfi invadessero il mondo cortigiano non meno che quello popolare d’Italia – possono fornirci qualche indicazione, più che cronologica, tematica. La struttura mentale e simbolica sottostante al gioco delle carte è senza dubbio quella delle ruota della fortuna tanto presente nel gioco dei tarocchi da essere, secondo il parere di alcuni, alla base dello stesso etimo della misteriosa parola che li indica e che peraltro resta incerto. Ma la logica del discorso petrarchesco dei Trionfi, ispirato del resto almeno in parte al topos dell’ubi sunt e pertanto, in ultima analisi, a quello della vanitas vanitatum, sembra una logica almeno concettualmente parlando ascetica: mentre alla base del gioco delle carte c’è una volontà dura di piegare la sorte, di vincere nel gioco della vita, di affrontare il destino e batterlo. I 22 Arcani Maggiori, articolati nelle tre serie di settenari ai quali sfugge il Matto, s’ispirano a una tipologia simbolica che, come più volte è stato notato, rinvia al sistema delle sette Virtù (le tre teologali e le quattro cardinali) (7). La sequenza e gli attributi delle Virtù sono stati com’è noto determinati da un poema epico-allegorico, la Psychomachia di Prudenzio, che a sua volta s’ispirava a una lunga tradizione non solo cristiana (l’esegesi paolina delle armi) ma anche pagana, che si potrebbe far risalire ai Sette contro Tebe di Eschilo il quale presenta il prototipo delle indicazioni emblematiche degli eroi allegorizzati. Ma se si seguono le vicende iconiche dei grandi mazzi storici di origine lombarda (le carte viscontee-sforzesche), ferrarese (le carte estensi) o marsigliese, si assiste a un continuo gioco di variabili, di reminiscenze, di citazioni incrociate. È evidente che dinanzi a grandi figure archetipiche come l’Imperatore, il Papa, gli Amanti, il Carro, la Giustizia, la Torre e via dicendo, la selva dei riferimenti, degli attributi, delle reminiscenze diviene inestricabile e qualunque variabile possibile: tanto più che non vanno dimenticati né il carattere ludico del gioco al quale le figure servono, né l’ampio margine di scelta tematica e al limite d’arbitrio che poteva presentarsi, dal XV secolo in poi, in questo tipo di iconografia voluttuaria e “minore”. In altri termini, bisogna guardarsi dal giudicare i tarocchi come si giudicherebbero gli apparati simbolici di una pala d’altare o di un affresco celebrativo sulle pareti di una cattedrale o di una sala principesca. Certe aberrazioni delle cosiddette “interpretazioni esoteriche” (non solo dei tarocchi), spinte talora sino ai limiti dell’arbitrario fantasticare e oltre, partono dai due peraltro contraddittori principi della presunzione dell’esistenza di un valore simbolico pregnante e costante, spinto fin al minimo particolare, e dell’assenza di un preciso codice cui l’apparato simbolico dovrebbe ispirarsi: il che lascia libero l’interprete di abbandonarsi a virtuosismi esegetici che spaziano dalla banalità all’anemia afilologica. Viceversa, il tarocco è buon testimone, nel suo apparato iconico e nelle varianti che in esso si registrano, di una serie di temi, di indicazioni, di influenze, di reminiscenze che provengono magari dalla filosofia o dalla grande arte plastico-figurativa del tempo: e non si deve dimenticare che esso si sviluppa contemporaneamente all’incisione su rame e a quella su legno, che in parallelo alla diffusione del libro a stampa divulgano e moltiplicano immagini sorte magari da un esempio a suo modo unico (sia esso la Stultitia giottesca della padovana cappella degli Scrovegni o la Venere del Botticelli) ma ben presto divenute popolari e perfino banali. Forse, l’atteggiamento concettuale più giusto nel giudicare uno sviluppo così articolato e intricato come quello dell’iconografia dei tarocchi dovrebbe essere quello delle “Libere associazioni” di freudiana memoria: che del resto, com’è noto, “libere” non sono affatto (altrimenti sarebbero ininterpretabili), ma al contrario rispondono a una rigorosa sintassi. D’altronde, non bisogna dimenticare che il gioco delle carte non era affatto qualcosa d’innocente o di neutro: play, ma soprattutto game, esso serviva fondamentalmente a due obiettivi moralmente sospetti se non addirittura proibiti, il gioco d’azzardo e la divinazione. Le carte sono, insieme con i dadi, le tavole degli scacchi, i cosmetici, tra gli oggetti più comuni che i predicatori rigoristi del Quattrocento distruggono pubblicamente. Ciò li favorisce a divenire essi stessi un veicolo di non-conformismo religioso; e, per converso, il fatto che ispirino tanto accanimento dipende probabilmente da un qualcosa che, nella loro struttura simbolica, li rende sospetti al di là delle loro funzioni. Il fatto che i tarocchi si diffondano come gioco proprio negli stessi decenni nei quali, in Italia, l’ammirazione per gli antichi e le loro “favole” mitologiche – un tratto, com’è noto, comune a tutto il medioevo – sta dando luogo a quel complesso e tipico fenomeno che noi siamo abituati a definire umanesimo e che si configura quanto meno con tratti di maggiore e più fedele attenzione rispetto a un’antichità fino ad allora interpretata come un inalterato anche se sbiadito presente, rinvia la possibilità che attraverso il loro linguaggio – come, per altri versi, attraverso ad esempio la poesia erotica – sia una forma della “sopravvivenza” (o del ritorno?) degli antichi dei ad affermarsi. I tarocchi come strumenti idolatrici, più o meno implicitamente letti come tali? La tesi è ardua, e senza dubbio non può essere sostenuta nel senso che quella delle carte potesse presentarsi come una sorta di controreligione. Ci mette sull’avviso, in tal senso, un interessante e forse rivelatore passo di un grande nemico di qualunque forma di gioco d’azzardo, Bernardino da Siena, il quale utilizza l’immagine del gioco come una specie di antichiesa fondata dal diavolo specularmente a quella cristiana, per contrastarla: “… poi [il diavolo] volse fare i cardinali, e sono quelli che vendono le baratterie. Vescovi sono chi compra le baratterie, e anco barattieri e giocatori. El vicario si sono i bari e la berta… le pievi sono le taverne e i postriboli. I popoli so’ll briachi che vanno a tali chiese contrari a Dio” (8). La tematica contro il gioco d’azzardo è nota: esso era in sé e per sé un vizio e un rischio di peccato; induceva a peccati più gravi, quali la prodigalità, la frode, la violenza, l’adulterio, la bestemmia; poteva portare alla rovina dei singoli e delle famiglie; era occasione di vanità, di menzogne, di dissolutezze. Non si trattava insomma tanto di un peccato, o di un’occasione di peccato, quanto di qualcosa di molto particolare, un attentato all’ordine e alla stabilità della società: senza contare che il cosiddetto “gioco profondo” ha veramente la possibilità di mutar lo status di chi vi partecipa, di cambiarne la condizione sociale, ed è quindi in quanto tale una minaccia per qualunque tipo di ordine, da quello morale a quello sociale e politico (9). La polemica degli Osservanti contro il gioco d’azzardo mostra da un lato quanto esso fosse diffuso e quanto fosse considerato fattore di disordine, ma dall’altro obbliga a porsi il problema se predicatori e statuti cittadini, con le loro numerose requisitorie e le loro presumibilmente poco efficaci interdizioni, non vi avessero individuato magari implicitamente un pericolo morale ancora più forte e serio di quanto essi stessi non dichiarassero. Gioco d’azzardo – in altri termini – come possibile fattore, magari coadiuvante, di una forma di nonconformismo etico-religioso (10). Il gioco d’azzardo, al pari della festa, poteva non solo degenerare, ma di per sé esser sufficiente a tener ad esempio lontani dalle chiese: ma a differenza della festa, dalla quale nel tardo medioevo non era mai estraneo, in un modo o nell’altro, un motivo religioso, nel gioco le intenzioni erano totalmente profane. Secondo la cronaca detta del Graziani, nel 1425 Bernardino a Perugia aveva fatto bruciare solennemente “fra la fonte de piaza e il vescovato le vanitates, rispettivamente, delle donne (.. .strisci e concimi del viso, … capilli posticci o contraffatti, … ogni lasciva portatura…) e degli uomini (…tavolieri, carti, dadi et facce contraffatte et simil cose brieve incante…): e tutte queste cose sono dette dal cronista diabolice, con un significativo accostamento ad esempio fra carti e brive incante, che dovrebbero essere i filatteri chiamati appunto, ordinariamente, “brevi” (quali superstizioni erano legate alla speranza di vittoria nel gioco d’azzardo?); e un quarto di secolo più tardi il francescano Apollonio de’ Bianchi di Piacenza, predicando a Cuneo, fece bruciare tra le altre cose chartulas, come si esprime l’anonimo cronista usando – per caso? – a designare le carte da gioco un termine che di solito si usava, appunto, per i filatteri magici (11). Ancora più preciso Bernardino da Feltre: “Porta, porta omnia lusoria, noli tenere diabolum in domo” (12). Ora, quando si pensi alla reciproca antipatia tra i religiosi rigoristi, in particolare gli Osservanti, e i primi umanisti, nasce quasi immediato il bisogno di chiedersi se, e quanto, e in che misura avesse peso in essa il tema del “ritorno degli dei”: le feste rinascimentali, con il loro apparato simbolico ispirato alle divinità antiche, non erano fatte certo su misura per andar d’accordo con Bernardino da Siena e i suoi discepoli e seguaci; e così le maschere, altra vanitas esecrata dai rigoristi e molto amata invece da uomini come Leon Battista Alberti. Ma che cos’ha a che vedere, tutto ciò, con le carte da gioco? Per comprenderlo, si dovrebbe tornar un istante su un manoscritto latino della Biblioteca Vaticana, il Reginense 1290, che contiene due brevi testi, il De deorum imaginibus libellus e l’Albrici philosophi liber ymaginum deorum. Il manoscritto è due-trecentesco e viene attribuito al “filosofo” Alberico, nel quale la maggior parte degli studiosi ravvisa ormai Alessandro Meckham: sue fonti sono Cicerone, Fulgenzio, Servio, Macrobio, Marziano Capella, Isidoro di Siviglia, Remigio di Auxerre. Com’è noto, nella biblioteca del Petrarca si trovavano sia Fulgenzio, sia il cosiddetto Alberico: e da quest’ultimo testo il poeta ha preso in prestito l’elenco degli attributi dei vari dèi pagani per i versi 140-262 dell’Africa, là dov’egli descrive le divinità dell’Olimpo raffigurate nella reggia di Siface (13). Il Seznec ha dimostrato che la tradizione albericiana della rappresentazione degli dèi pagani sopravvive negli affreschi di palazzo Schifanoia e nei Tarocchi del Mantegna. Poche sono, nei tarocchi del Quattrocento, le rappresentazioni per cosi dire “dirette” degli dèi: il che è del resto logico, poiché le divinità antiche, quando figurano nei mazzi, lo fanno essenzialmente in quanto pianeti (Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno) a parte i luminaria Sole e Luna che possono a loro volta avere i connotati di Apollo e di Diana: un’eccezione semmai è costituita dai Tarocchi detti “del Mantegna” (14). Ma forse il crescere e l’articolarsi della cultura ermetica dopo le celebri versioni ficiniane del Corpus compiute nel 1463 fu uno degli elementi che contribuiscono a mutare tale stato di cose, come sembra di capire dal celebre foglio Cary, xilografie cinquecentesche, dove la simbologia adottata risente di altri contributi, ad esempio forse di origine mithraistica o isiaca (il che beninteso meglio si vede nelle raffigurazioni, rispettivamente, del Sole e della Luna). Le molte edizioni delle versioni ficiniane dei testi ermetici fornirono probabilmente spunti ai disegnatori e ai pittori di tarocchi, fin al Quattrocento inoltrato abituati a seguire la semplice tradizione albericiana, in chiave di una “sopravvivenza degli antichi dèi” alla quale tuttavia l’umanesimo incipiente aveva conferito il carattere d’un “ritorno” poco gradito ai cristiani rigoristi che già, da vari punti di vista, stavano preparando quella stretta riformistica che nel Cinquecento avrebbe avuto la meglio in tutta Europa sotto forma di Riforma protestante e di Controriforma (termine convenzionale, quest’ultimo, al quale si deve dare altresì – non dimentichiamolo – anche il significato di “Riforma cattolica”). Nel corso del pieno Rinascimento, almeno nei paesi cattolici, le raffigurazioni degli antichi dèi avevano ormai perduto di forza contestativa: erano diventati puri vocaboli d’una cultura diffusa, convenzionale. Invece le forme iconico-simboliche ispirate più specificatamente e propriamente alla tradizione ermetica, a sua volta battuta in breccia dal sopravvento rigorista tardo quattrocentesco e primo cinquecentesco, potevano mantenere intatti valori nonconformistici i quali però, a loro volta, difficilmente potevano venire intesi dai fruitori del gioco delle carte. Sostanzialmente fallita la proposta ficiniana d’una composizione tra platonismo e cristianesimo, l’ermetismo si sarebbe trasformato in segreto linguaggio di élite, in proposta iniziatico-eversiva, mentre la simbologia cattolica ufficiale sarebbe tornata a più convenzionali tradizioni. Resta la figura del giocatore di carte: cinico, baro, vizioso. È forse quel che rimane, semplicizzato, dell’immagine di un’ impietas più profonda, che giocava con il destino ed evocava, grazie alle lamine che potevano procurar denaro e predire il futuro, i nomi degli dèi antichi. Franco Cardini
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