I perni endocanalari 2a Ed.

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pag.323 – ill. 779 a colori

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Descrizione

Introduzione Negli ultimi 25 anni i vistosi progressi dell’Odontoiatria in generale e del­l’endodonzia e parodontologia in particolare hanno portato a condizioni di recuperabilità denti in precedenza fatalmente destinati all’estrazione. Questo ha cancellato una cultura troppo spesso exodontica e protesica e le ha sostituito una nuova filosofia odontoiatrica, decisamente più conservati­va. Questa tendenza però, come sempre succede, ha portato con sé proble­matiche nuove; in particolare ha reso frequente la necessità di ripristinare denti fortemente distrutti o addirittura decoronati dal processo carioso. In casi di questo genere assicurare una buona ritenzione al materiale da restau­ro e nel contempo garantire la resistenza delle strutture dentarie residue co­stituisce molto spesso una difficoltà tecnica di rilievo. In quest’ottica si spiega il successo e lo sviluppo numerico e qualitativo dei perni endocanalari prefabbricati, in grado di fornire una risposta adeguata al­le esigenze sopracitate. Parimenti massiccio è stato, attraverso gli anni, il ri­corso al perno-moncone fuso in lega aurea, soprattutto per il ripristino degli elementi monoradicolati, anche se non mancano di certo esempi e descrizio­ni del suo impiego nei poliradicolati, con modalità costruttive alle volte anche molto complesse. Va chiarito che il perno endocanalare non è un’invenzione dei giorni no­ stri. La prima notizia certa in merito ci viene da Pierre Fauchard, nel lontano 1743, e non va dimenticato che in Odontoiatria protesica l’utilizzo dell’endo­donto a scopo ritentivo (vedi le corone Richmond) è pratica consolidata dal secolo scorso. La routinarietà del suo impiego clinico è però patrimonio dei tempi più recenti, che lo hanno portato, con la ovvia evoluzione, alla situazio­ne attuale, caratterizzata da casistiche notevoli e da una merceologia decisa­mente ampia. L’uso del perno endocanalare ha anche conosciuto, nella opinione dei vari Autori, alterne fortune. Anni fa il ricorso a perni e viti endocanalari era fin troppo abbondante. Quasi fosse il «banco di prova» dell’abilità in Conservati­va, la ricostruzione in amalgama del dente devitalizzato con perni endocana­lari faceva la parte del leone in congressi, corsi e pubblicazioni. Poi, indicati­vamente nei primi anni ’80, a seguito di valutazioni più serie e, forse, per l’evidenziazione degli insuccessi e dei danni che un uso eccessivamente disin­volto o addirittura indiscriminato dei perni aveva causato, questa tendenza ha iniziato a cambiare. Molti Autori sono arrivati a proscrivere l’impiego di questi mezzi di ritenzione estrinseci sostenendone la dannosità potenziale e comunque l’inutilità, e affermando anzi che la ritenzione naturale, quella che sfrutta la camera pulpare e i pozzetti scavati nel primo tratto dei canali radi­colari, è più che sufficiente in tutti i casi. In altre parole, si è passati per cosìdire da chi suggeriva un perno per ogni canale a chi ne sconsigliava anche uno solo e nel canale maggiore. Noi siamo convinti che le posizioni estreme non siano producenti, e prefe­riamo una certa elasticità di comportamento. Certo ricorriamo al solo endo­donto opportunamente preparato quando le strutture residue sono di per séin grado di contribuire ad una ritenzione valida, fedeli alla massima che «in Chirurgia tutto ciò che non è indispensabile è dannoso». Però, in caso di en­dodonto ridotto (come nel pa?:iente anziano) o di fronte ad un dente in prati­ca decoronato, riteniamo vantaggioso ricorrere ad un perno, prefabbricato o fuso che sia.

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