Compendio di Psicologia

35,00 

Volume di 512 pagine
Anno di pubblicazione: 2005
ISBN: 88-299-1733-8
Editore: PICCIN

Esaurito

COD: pi1733 Categoria:

Descrizione

Nel 1988 diventò esecutiva la riforma della Tab. XVIII, cioè dell’ordinamento degli studi della laurea in Medicina e Chirurgia. Fu l’inizio di un grosso mutamento, per quanto riguarda le scienze psicologiche in ambito medico, e dipoi sanitario, e rivoluzionario per quanto concerne la formazione dei medici, e progressivamente di tutti gli altri operatori della sanità. La riforma implicava il riconoscimento della necessità che i medici acquisissero specifiche competenze interpersonali, ovvero una formazione psicologica: la sua applicazione comportava un mutamento di notevole entità nell’ordinamento dei loro studi e della loro formazione, che si è esteso progressivamente dai medici a tutti gli altri operatori sanitari. Come tutti i cambiamenti, l’applicazione effettiva e efficace della riforma ha incontrato resistenze e difficoltà (Imbasciati, 1993), a tutt’oggi non ancora del tutto superate, tuttavia essa ha segnato, con tutti i successivi corrispondenti cambiamenti per gli altri operatori, il punto di arrivo di un precedente e poliedrico mutamento culturale, sociale e scientifico, che si è lentamente verificato nel campo della medicina e più in generale della sanità. Molteplici fattori hanno concorso a generare questo mutamento. La medicina si è sviluppata suddividendosi in tante specializzazioni, che hanno parcellizzato la figura del medico onnicompetente (“il dottore”), e di conseguenza anche il paziente come persona: oggetto medico sono diventati i vari apparati del corpo umano, ognuno secondo una certa specializzazione, anziché l’organismo in toto e pertanto la persona; il progresso tecnico ha corroborato l’attenzione dell’operatore su singole parti del corpo o su uno specifico metodo di intervenirvi. Parallelamente si è sviluppata in senso sociale l’assistenza medica: questo però ha portato una inevitabile burocratizzazione dell’apparato assistenziale. L’uno e l’altro fattore hanno concorso a rendere il paziente sempre più anonimo, un insieme di oggetti inanimati sui quali intervenire con differenti tecniche, o una “pratica”: il paziente come persona è diventato un “caso”, un numero. Questi inconvenienti sono stati avvertiti, denunciati, lamentati: ciò ha generato un movimento di opinione per un recupero della totalità del paziente e quindi della sua persona. La psicosomatica andava d’altra parte dimostrando quanto quest’ultima, nelle sue relazioni con i curanti, fosse rilevante nel determinismo biologico. Per contro le scienze psicologiche, negli anni ’50 e successivi, sono uscite dai laboratori, in un loro differenziato sviluppo applicativo, nel campo del lavoro, della scuola, e dell’intervento diretto sulle persone, onde migliorarne l’equilibrio e l’adattamento. È nata la Psicologia Clinica, come disciplina specifica per un intervento di recupero delle “persone”: sia dei pazienti, sia degli operatori, in quanto essi stessi persone umane che intervengono per l’aiuto ad altre persone. Tutti questi poliedrici fattori hanno maturato la riforma degli ordinamenti medici, e poi sanitari, nel senso di introdurre la necessità di una formazione degli operatori per il recupero del paziente come persona. Si è parlato di umanizzazione della medicina: evidentemente si avvertiva che stava diventando disumana. Il termine umanizzazione si è prestato (e si presta) a qualche equivoco, nel senso di intenderla in senso poco scientifico, come in questo testo viene in dettaglio discusso, tuttavia l’introduzione di precise scienze psicologiche nei percorsi formativi ufficiali della sanità ha la possibilità di correggere tali misconoscimenti. Sul senso preciso di tali “scienze” si riscontra, anche qui, qualche equivoco, per lo più traducentesi in dubbi popolari, sulla loro scientificità, talora usati politicamente per mantenere lo statu quo. Un problema, qui a mio avviso non abbastanza rilevato, consiste nel fatto che gli aspetti più appariscentemente scientifici delle discipline psicologiche si presentano più ricorrentemente in laboratorio, anziché sul campo, cioè sulle persone: questa apparenza è in relazione con uno stereotipo popolare di scienza che, come tale, viene più facilmente riconosciuta nella psicologia sperimentale che in quella clinica. La definizione della Psicologia Clinica, e il suo statuto scientifico, sono stati laboriosi (cfr. capp. 1, 2, 4). Ma l’aspetto che in questa sede mi preme rilevare è che la Psicologia Clinica tout court, attende ancora di essere differenziata per le sue diverse applicazioni sanitarie. E così pure le altre scienze psicologiche, così come definite storicamente, non possono essere trasposte pari pari in campo sanitario. Occorre un loro sviluppo differenziato. Occorre pertanto una ricerca sul campo, di contenuti e di metodologia, e una ricerca della didattica relativa. Tale differenziazione si rende ancor più necessaria in quanto lo sviluppo scientifico, organizzativo e sociale dell’assistenza medico-sanitaria ha reso indispensabile la creazione di figure professionali con competenze differenziate rispetto a quelle del medico, e relativamente indipendenti. Questi operatori non possono più essere concepiti come generici aiutanti del “dottore”, “paramedici”, come ancor oggi si usa dire con termine divenuto del tutto improprio, bensì come professionisti, nel cui curriculum formativo devono essere incluse competenze psicologiche, che però devono essere specifiche per ogni diverso tipo di operatore. Sociologia, economia, management, organizzazione si mescolano inoltre agli apporti psicologici, qualora si tratti dell’assistenza sanitaria, in un non semplice intreccio, qualora si voglia salvaguardare “la persona”. Prima dei suaccennati mutamenti la medicina, concentrata sulla figura del medico, era rimasta per parecchie decadi del tutto staccata da una contemporanea evoluzione delle scienze psicologiche, che avveniva invece in altri ambiti, cioè negli Istituti di Psicologia delle Facoltà umanistiche (Imbasciati 1991a, b, 1993). Questa divaricazione, dalle molteplici radici storiche soprattutto italiane, aveva fatto sì che in ambito sanitario (meglio, per allora, è dire “medico”) rimanesse, ferma, una cultura psicologica quanto mai obsolescente. Ciò è stato consacrato dal fatto che fino al 1988 l’insegnamento psicologico nella formazione del medico era rimasto simbolico, anzi fittizio e progressivamente mistificatorio: fino a tal data vi fu infatti il cosiddetto “esame complementare”, di un’unica e generica “Psicologia”, che serviva, visto l’orientamento di allora, a prendere un bel voto senza aver studiato pressoché niente. Quanto in tal sede veniva formalmente indicato (direi solo consigliato) per studiare, era, impartito da docenti che psicologi non erano, limitato a poche nozioni, che potevano risalire agli Anni Venti o poco più dello sviluppo delle scienze psicologiche; condite semmai da studi posteriori di fisiologia neurosensoriale. Di conseguenza, generazioni di medici si sono affacciati alla ribalta, anche dirigenziale, della Sanità, non solo senza conoscere quanto in quelle decadi le scienze psicologiche avevano sviluppato (oltretutto differenziandosi dalla matrice originaria comune), ma con l’illusione, visto che avevano fatto un “certo esame”, di conoscere la “Psicologia”. In realtà quel che avevano, per così dire, conosciuto, era una visione superficiale, riduttivistica, obsoleta e talora impropria di questo ambito scientifico: di conseguenza la cultura psicologica in ambito medico diventò progressivamente mistificatoria (Imbasciati, 1984, 1990, 1991a, b, 1993, 1995a, b). E a lungo nocque, alla Medicina stessa, immobilizzandola in una pseudocultura obsoleta, che la privava di competenze indispensabili e rese più cogenti dai mutamenti socioassistenziali. Finalmente avvenne la prima virata: la summenzionata riforma degli studi medici (1988) e le successive svolte fino ai giorni nostri. La prima, abolendo tutti gli esami complementari, istituiva nel percorso formativo del medico tre insegnamenti diversi e successivi, obbligatori: una “Psicologia Generale”, una “Psicologia Medica” e una “Psicologia Clinica”. Successivi aggiustamenti di questa riforma hanno permesso alle singole Facoltà di regolare al meglio differenti gradi di formazione psicologica per il medico. Parallelamente avveniva la differenziazione e la qualificazione di competenze di altri operatori, infermieri in primis. Vennero i primi “Diplomi Universitari” per qualificare questi operatori, ed infine le lauree brevi, che oggi contemplano oltre venti lauree diverse, per le diverse applicazioni operative all’area assistenziale. Tutte queste figure professionali hanno richiesto (ed hanno avuto sancito negli statuti) una formazione in determinate scienze psicologiche. Ma quali? E impartite da chi? Questi due interrogativi, rivelatisi enormi, fanno sì che, a tutt’oggi, l’effettiva formazione che di fatto le attuali risorse universitarie consentono, non produca ciò che sulla carta è stato pensato e sancito. Le scienze psicologiche idonee all’area assistenziale-sanitaria devono ancora costituirsi con fisionomie precise, e differenziate da quelle discipline che nel frattempo hanno trovato la loro identità, nell’originaria partenza dagli istituti di psicologia sperimentale di facoltà umanistiche e poi a tutt’oggi nello specifico ambito delle Facoltà di Psicologia. Parallelamente, ma soprattutto, devono costituirsi docenti effettivamente competenti di tali costituende discipline. Qui la penuria delle risorse economiche a disposizione dell’università in questi ultimi anni, nonché la cultura psicologica obsoleta e mistificatoria che abbiamo menzionato, hanno sinergicamente giocato un ruolo molto pesante, nel senso di imporre di coprire, comunque sulla carta, la miriade di insegnamenti psicologici, che si erano dovuti istituire: si sono reclutati comunque docenti, a basso prezzo, precari, supplenti, talora impropri, col risultato purtroppo di un vero sottoprodotto di docenza. Soltanto poche facoltà sono sfuggite a questo destino, e già può essere considerato un discreto risultato se in alcune si è riusciti a ottenere una docenza frettolosa, anziché squalificata: frettolosa in quanto si è riusciti a mobilitare docenti qualificati, già in ruolo, ma sovraccaricandoli di tre, quattro, cinque e più corsi diversi, sicché essi sono stati “svolti”, ma per lo più “accorpati”, cioè senza tener conto che la medesima dizione disciplinare deve sortire programmi diversi a seconda delle differenti lauree. Conseguenza generale inevitabile è stata una pesante difficoltà a sviluppare una ricerca della didattica, necessaria per la definizione di scienze psicologiche idonee ad essere applicate all’area sociosanitaria e diverse tra di loro a seconda della laurea specifica. Da quali “psicologie” già costituite si è dunque attinto, o si può attingere, per costituire le nuove scienze psicologiche sanitarie? Di fatto si è attinto dalla “Psicologia Generale” e dalla Psicologia Clinica: da quest’ultima radice, trasposta nell’ambito della vecchia cultura medica, sono derivati enormi equivoci, sul concetto di “clinico”, su cosa sia una psicologia che si possa o debba chiamare medica, e via dicendo. Equivoci che nel presente testo sono stati in dettaglio illustrati. Ma anche nell’attingere alla Psicologia Generale si sono verificati e sono tuttora in atto equivoci e malaggiustamenti. Si è equivocata la Psicologia Generale come “psicologia in generale”, con il sottinteso stereotipo popolare di una psicologia fatta di consigli, prescrizioni comportamentali e ragionamenti del senso comune. Questo soprattutto con il concorso della cultura medica, come suddescritta, dei vertici organizzativi delle Facoltà mediche. Di conseguenza non si è curata poi più di tanto la selezione di docenti competenti. Questa, d’altra parte, subiva (e subisce) le grosse remore economiche che sono state indicate. Ma anche laddove ci si è potuto permettere di porre il problema in termini fattivi e scientifici, si presenta l’interrogativo di cosa proporre, per gli operatori sanitari, dell’ampio spettro contemplato dalla Psicologia Generale. Forse il metodo? Esso in effetti fa parte essenziale dell’insegnamento di base affidato a questa denominazione disciplinare, ma quanto la parte metodologica, con la sua complessità, può essere aggiunta al carico degli studi che già gli operatori sanitari sostengono? Inoltre tale base scaturisce, nella Psicologia Generale, dalla ricerca che viene (o è stata) condotta su specifiche aree, per esempio la percezione, l’apprendimento, il linguaggio, o da specifiche scuole, per esempio la Gestalt, il behaviorismo, o le varie scuole cognitivo-comportamentali. Quanto di questo può essere offerto, anziché “propinato”, per un’utile formazione degli operatori sociosanitari? Insomma, a mio avviso deve essere definita una psicologia generale, scientifica, che sia specificamente indicata per la formazione degli operatori sanitari, o forse più psicologie generali, per i diversi operatori. Alla dizione Psicologia Generale si potrebbe aggiungere l’aggettivazione “sanitaria”, ma ciò potrebbe alimentare gli stereotipi tuttora imperanti che tale psicologia sia costituibile in modo puramente applicativo, come insieme di prescrizioni comportamentali per gli operatori, senza che a questi vengano fornite, sia le basi metodologiche (la cui conoscenza è indispensabile per evitare che le “ricette” vengano applicate secondo le distorsioni personali di ogni singolo operatore), sia un percorso strutturante, per una specifica e scientifica mentalità psicologica dell’operatore. Una effettiva “formazione”, e non semplici nozioni. È questa una difficoltà rilevabile anche per la formazione degli stessi psicologi. A maggior ragione per gli operatori socio-sanitari, soprattutto delle lauree triennali. Occorre evitare una preparazione “tecnica”, che, senza le basi strutturali di una ben formata mentalità scientifica, viene inevitabilmente distorta, proprio nei risultati di quella applicatività che si intendeva privilegiare. Incorrono qui due grossi inconvenienti. Il primo è costituito dal fatto che alle lauree brevi accedono in larghissima misura gli studenti provenienti da quelle scuole secondarie (per es. Istituti Professionali) che più di altre (licei) hanno lasciato imponenti lacune (nel buonismo attuale si chiamano “debiti formativi”), oppure gli studenti più scadenti, che han ritenuto di iscriversi a lauree meno impegnative. Come è possibile dare a questi soggetti una base formativa che eviti che l’impronta tecnica delle loro lauree si traduca in una mistificazione del sapere psicologico? L’altro inconveniente, non infrequentemente rilevabile, è costituito dal fatto che alcune strutture di personalità sono una controindicazione a fare l’operatore sociosanitario; alcuni soggetti sono strutturalmente incapaci di svolgere “professioni d’aiuto”. Ma di fatto persone di questo tipo si iscrivono ai corsi di laurea che abilitano a tali professioni. Si presentano allora due vie di rimedio, però non facilmente realizzabili. L’una è costituita dal “bocciare”, decisamente, questi soggetti. Ma è possibile, oggi nella nostra università italiana, bocciare? Ed ancor più è possibile, oggi nell’attuale struttura didattica, individuare tali soggetti? L’altra via è quella di introdurre percorsi formativi che incidano sulle strutture profonde di personalità. Di questo si parla diffusamente lungo il presente testo. Ma simili percorsi, personalizzati, sono tuttora difficili da realizzare, sia per i costi, sia per le resistenze delle Organizzazioni universitarie. * * * * Nel quadro suddescritto mi nacque l’idea, tra il ’98 e il ’99, di cimentarmi nell’impresa, da cui scaturisce questo libro, di costituire una psicologia sanitaria, differenziando le discipline psicologiche ufficialmente già costituite. Impresa rivelatasi progressivamente più ardua di quanto prevedevo. Di conseguenza penso che il risultato sia parziale, ma spero esemplare, nel tracciare una via che altri potranno sviluppare, sia nel senso di una ricerca della didattica, sia, soprattutto, nel promuovere percorsi formativi diversi da quelli tradizionalmente applicati nelle università italiane. Il presente testo mi è nato dal trovarmi ad essere responsabile del reclutamento docenti, per le aree psicologiche, degli istituendi Diplomi Universitari, poi assorbiti dalle “Lauree Brevi”. Nei docenti che avevo selezionato (curriculum e colloquio) avevo avvertito un notevole entusiasmo, sia nei pochissimi già in posizioni (se non ruoli) universitari, che si sentivano attratti da queste nuove prospettive, sia nel più grande numero di docenti che da posizioni libero-professionali, o dai Servizi, si sentivano onorevolmente impegnati, sia pur in modo precario (che però si sperava provvisorio), in una impresa universitaria. In riunioni di gruppo per il coordinamento didattico, emerse subito il problema di come “comporre” un programma di insegnamento: quali contenuti, quale tipo di didattica, quali testi da indicare. Quest’ultimo problema, che di solito in sede universitaria è il meno difficile, si presentava, anch’esso, tutt’altro che facile. I pochi testi italiani sul mercato erano solo dei “bigini”, che riassumevano succintamente pochi elementi dei più tradizionali manuali Psicologa Generale, o di Psicologia Evolutiva e di Psicologia Dinamica, con frammiste nozioni mediche e biologiche. Ci voleva altro. Né i testi di altri paesi potevano addirsi alla situazione italiana. “Facciamo dispense”, si disse: e così si fece per un paio d’anni, raccogliendo delle sorta di antologie di articoli vari. Disomogenei, risultarono, ed inoltre gli stessi docenti avevano bisogno di documentarsi meglio. Nacque così l’idea di un lavoro più impegnativo, da fare in gruppo e a gruppi, documentandosi a fondo sulle questioni che riguardavano le professionalità in questione, per giungere a scrivere un libro. Ideai una prima scaletta di un testo, con l’impegno reciproco di riunioni di supervisione e di coordinamento. Riscossi più che numerose e entusiastiche adesioni, e nelle prime riunioni si compose un scaletta assai simile a quella attuale. Ma sopravvennero difficoltà e delusioni. L’avvenire dei Diplomi Universitari si delineava senza che vi fosse provvedimento alcuno per l’organizzazione e le risorse, mentre gli insegnamenti andavano moltiplicandosi per la progressione degli anni di corso e per l’istituzione di nuovi corsi: ma senza alcun riconoscimento, giuridico o economico, neppure simbolico. La riforma universitaria che istituiva le “lauree brevi” sembrò preannunciare un miglioramento. Ma fu solo sulla carta. Nessuna risorsa venne data alle università. I docenti che vi erano impegnati fecero i loro conti: alcuni, talora i più validi, si ritirarono; altri si demotivarono all’impegno. Di conseguenza il gruppo dei docenti dei Diplomi non coincise più col gruppo di coloro che rimasero disponibili a lavorare per il volume. Per quest’ultimo rimasi con pochi. Con coloro i cui nomi sono restati in questo testo continuai l’opera sino alla fine, ma a costo di un progressivo accollarmi io il lavoro che credevo potesse essere svolto da loro. Per i capitoli in cui continuai una collaborazione feci più fatica che in quelli che mi presi a redigere in forma esclusiva. Forse, in parte, avevo sopravvalutato il loro impegno, trasportato anch’io dall’entusiasmo verso quello che si credeva uno sviluppo nuovo, e lodevole, delle facoltà di medicina italiane, verso una formazione psicologica degli operatori, ovvero verso un pieno e riconosciuto ingresso delle scienze psicologiche in un mondo che fino ad allora ne era rimasto chiuso. L’istituzione dei Diplomi Universitari aveva aperto la prospettiva ad una differenziazione e qualificazione dei diversi operatori della sanità che fino ad allora erano rimasti in un ruolo tecnico poco qualificato, affidato a scuole ospedaliere, o private, cui si poteva accedere col diploma di scuola media. L’istituzione universitaria ne innalzava la soglia di accesso e prospettava una qualifica di rango superiore. Un parallelo mutamento culturale, sociale, e organizzativo qualificava peraltro queste figure come aventi una loro autonomia professionale e una loro più precisa fisionomia, e ne differenziava più figure. Così agli infermieri, ai fisioterapisti, alle ostetriche, ai tecnici di laboratorio, si affiancavano gli igienisti dentali, i logopedisti, gli ortottisti, i biotecnologi, gli assistenti sanitari, i tecnici per la prevenzione, i tecnici di radiologia, i riabilitatori psichiatrici, ed altri ancora, che avrebbero collaborato nei servizi con gli assistenti sociali, gli educatori (anch’essi inclusi nella sanità), gli psicologi, gli psichiatri e via dicendo. In altri termini la riqualifica di una serie di operatori, sociosanitari appunto, prospettava la necessità di approntare non solo un manuale per gli studenti universitari dei nuovi ordinamenti, ma anche uno strumento autodidattico, un compendio, per l’aggiornamento degli operatori già in servizio, per riallinearsi alla nuova linea dei nuovi diplomi. Di qui un mutato intento: dar corpo a un testo non semplicemente universitario, che accanto alla sistematicità potesse funzionare anche come opera di consultazione. La prospettiva delle Lauree Brevi, in sostituzione e ampliamento dei Diplomi, sembrava convalidare la necessità di un impegno di ricerca, per la didattica e per una formazione aggiornata degli operatori. Ma le lauree brevi vennero “a costo zero”: spiego, per i profani, che ciò significò che tutte le università italiane istituirono ognuna decine di lauree diverse e supplementari a quelle tradizionali, con conseguente necessità di strutture e di docenti, senza avere nessuna risorsa economica. La si sperava, ma non venne: nessun ruolo di docenza è stato possibile istituire per gli insegnamenti (psicologici) specifici delle lauree brevi. Tutto è stato fatto sovraccaricando di plurimi incarichi i docenti di ruolo. La didattica universitaria italiana è piombata così, in toto, nel caos. In tale caos la mia Facoltà si trovò addirittura a sopprimere la mia funzione di referente per le scienze psicologiche e di selezionatore dei docenti precari (pagati oltretutto solo simbolicamente), perché tali funzioni comportavano laboriosità e tempi divenuti insostituibili nel sovraccarico sopraggiunto sulle spalle dei pochi docenti in ruolo. Inevitabilmente tutti coloro che a vario titolo si erano impegnati nel nuovo sviluppo universitario, rividero ognuno le proprie posizioni, o quanto meno il proprio impegno. Il libro ovviamente ne risentì, anche per coloro che vollero rimanere a lavorarvi. Il testo comunque è stato finito, con ritardi, sostituendo io la mia opera diretta, invece della supervisione, al lavoro altrui: non senza incomprensioni da parte di chi credeva di aver iniziato un lavoro che presumeva poter finire da solo; e non senza discapito di quanto da me prodotto, e di maggiore laboriosità ove fu giocoforza proseguire in collaborazione. * * * * Il testo era stato concepito con due parti: nella prima si era inteso fornire una base, metodologica, di prospettiva generale e terminologica, che potesse servire a tutti gli operatori, nonché offrire un supporto alle lacune dei loro percorsi, come sopra delineato. Questa parte si è articolata nei primi sei capitoli. Una seconda parte avrebbe dovuto essere applicativa, specifica per le varie subaree sanitarie, e articolata in modo che ciascun differente operatore potesse attingervi differenziatamente. Le sottoaree avrebbero dovuto essere più numerose e più differenziate di quelle che si è riuscito a realizzare: ne sarebbe risultato un vero “trattato”, forse in più volumi. Ma sarebbe questo stato utile nell’attuale mentalità del panorama italiano? Ad una obbligata riduzione si è pensato potesse supplire una parte intermedia, ideata lungo l’iter di stesura, dedicata sostanzialmente all’osservazione, alle modalità con cui ogni singolo e differente operatore può “guardare” il suo specifico campo: e questo lo può fare avendo acquisito un assetto di base per questa osservazione, e cioè sapere “come funziona la mente”. Se una base generale è la conoscenza di “come si studia la mente” (come le diverse scienze psicologiche affrontano l’indagine scientifica), ovvero la conoscenza dell’articolazione metodologica e dei concetti e termini scientifici che vengono usati (onde evitare gli equivoci del linguaggio comune: vedi il nostro glossario), per una base clinico metodologica di chi a vario titolo osserverà il suo paziente, si è ritenuto indispensabile che l’osservazione fosse fondata su di un minimo di conoscenza di come oggi sappiamo che funziona la mente umana; con riferimento in primis a come funziona la mente dell’operatore, che osserva e, in conseguenza di ciò che ha creduto di osservare, interviene. Di qui i capp. 7, 8, e 9, forse i più difficili di tutto il testo, ma a nostro avviso indispensabili affinché l’osservazione non si risolva in velleità ossessive; nonché a prevenzione che la terza parte, la specifica “psicologia sanitaria” (dal cap. 11 al 22), non si risolva in nozioni che possono correre il rischio di essere assorbite dallo spirito prescrittivo della cultura medicalista. Confidiamo di aver evitato questo rischio, corredando gli ultimi capitoli di spunti di riflessione, in richiamo alle prime due parti, nonché soprattutto con la nostra insistenza sui percorsi formativi non tradizionali, anche personali. Ho infine pensato di fornire ogni capitolo di una previa scaletta, che dettagliatamente indicasse gli argomenti svolti sotto i titoli dei diversi paragrafi: ciò nell’intento di rendere il testo agile al ripasso di quanto letto, nonché alla consultazione, soprattutto per gli operatori già in servizio. In quest’ultimo intento è stato studiato e congegnato un indice analitico ragionato: non si tratta del solito elenco di parole (fatto soltanto col computer), ma di un elenco di collegamenti di concetti, come nella apposita legenda indicato. Il testo non è ovviamente immune da difetti, e soprattutto potrà essere rilevata la mancanza di alcuni argomenti, importanti per la psicologia sanitaria; per esempio la prevenzione, gli anziani, o altro; non è stato possibile fare tutto, sia per le difficoltà descritte, sia anche per ragioni editoriali. Confido che altri sapranno sviluppare la strada che questo libro apre: è la prima trattazione, in Italia, che con un certo respiro affronti le problematiche aperte dall’evoluzione e dalla qualificazione psicosociale dei servizi assistenziali. Ai lettori e agli operatori pertanto il giudizio; e ad altri studiosi un auspicio. Nonché, ai politici e ai vertici delle Organizzazioni Sanitarie, un appello per rendere attuato ciò che sulla carta è stato statuito.

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