Descrizione
“La frattura guarisce in sala operatoria con un’osteosintesi di buona qualità”. Non molti anni fa lesioni del bacino venivano trattate incruentemente: solo alcune forme elementari, come la frattura della parete posteriore del cotile, venivano operate con approcci limitati e poco anatomici; le forme complesse non erano prese in considerazione e gli si attribuiva una definizione generica. In sostanza l’attenzione dei traumatologi era rivolta a ridurre l’eventuale lussazione; per raggiungere lo scopo o si praticava la trazione a letto o si applicavano viti cervicoepifisarie, come la vite di Filippi o di Schanz, ancorandole all’apparecchio gessato, Il risultato è noto: raramente la frattura manteneva un allineamento soddisfacente e nella maggior parte dei casi, alla rimozione del gesso si doveva prendere atto di una consolidazione viziosa. La chirurgia del cotile inizia nel 1955 con Robert Judet che, studiando dapprima le fratture del versante posteriore poi di quello anteriore, ha classificato le sue numerose osservazioni in tipi e sottotipi ponendo le basi di un trattamento il cui scopo era quello di restituire alla sfera acetabolare la sua forma anatomica. La chirurgia della pelvi ha origini più recenti anche perché il trattamento conservativo non ha mai portato ad invalidità importanti come le fratture del cotile non operate. I nostri Maestri praticavano il trattamento incruento con risultati o positivi, o accettabili, o insoddisfacenti: alcune lesioni quelle instabili soprattutto avevano un esito infausto che si manifestava o con una grave impotenza funzionale, o con un “domani doloroso” non sempre soggetto a remissione, o con sintomatologie in parte funzionali in parte algiche.
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