Descrizione
Nell’attuale letteratura medica, psicologica e psicopatologica, si osserva sempre più distintamente l’emergere della svolta narrativa sulla quale avevano ben richiamato l’attenzione già A. Kleinmann, J. Bruner e da noi Giuseppe Martini. Si cerca di scoprire e anticipare le varie dimensioni della struttura e del significato degli eventi creati dalla malattia, nonché di individuare un peculiare tempo narrativo; cioè il denso intreccio esistente tra narrazione e psicoterapia relazionale. La scoperta di nuovi significati da parte del narratore (il “paziente” o presunto tale) riguarda la costruzione della trama del suo “disagio”, la sua posizione nel contesto del discorso più familiare e domestico. È qui che lo psicoanalista cerca di rievocare l’oblio, cerca la reminescenza (Casey). Una narrazione così intensa propone prospettive e ricostruzioni sempre diverse; essa sollecita il terapeuta ad entrare nel mondo ipotetico del “come se”, in un’anamnesi che è sempre una metafora, esprimente un’autobiografia del profondo, in cui i rapporti tra costruzione narrativa dell’esperienza e psicoterapia sono poco noti. Nel resoconto anamnestico del paziente, nel suo molteplice distendersi, di seduta in seduta, di colloquio in colloquio, di incontro in incontro, lo psicopatologo deve sforzarsi di cogliere le sequenze alternative del narrare; dove ogni trama implica una diversa forma di efficacia perché mantiene sempre un’apertura al cambiamento: e ciò anche con persone con angustie e strettoie mentali più o meno evidenti, sia d’origine che di declino o tramonto. Quando si racconta il proprio passato, non lo si rivive, piuttosto lo si ricostruisce: il che non vuol dire che lo si inventi. D’altra parte un evento non può farsi ricordo se non sia carico di emozione. Si pensi ai racconti che si fanno a se stessi, la cui posta è grande perché si tratta di salvare Narciso, proprio tessendo un legame di intimità con l’ascoltatore, sopprimendo ogni linea di clivaggio, ogni sfaldatura.
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